giovedì 20 luglio 2017

Recensione: "La misura della felicità" di Gabrielle Zevin


Ricorda, Maya: le cose che ci colpiscono a vent'anni non sono necessariamente le stesse che ci colpiscono a quaranta, e viceversa. Questo è vero nei libri e nella vita.

Penso che, come con le canzoni, anche i libri possano scandire la vita di ognuno di noi, facendoci tornare alla memoria qualche situazione o insegnandoci delle piccole lezioni.

Ho superato i vent'anni da un po' e sono ben lontana dai quaranta, forse un giorno questo romanzo non mi colpirà quanto oggi, ma sicuramente avrà sempre un posto d'onore tra i libri che ricorderò con immenso affetto e infinita dolcezza.


TITOLO: La misura della felicità
AUTORE: Gabrielle Zevin
EDITORE: Nord
ANNO: 2014
PREZZO: 4,99€ (eBook); 16€ (copertina)
PAGINE: 320

TRAMA: Dalla tragica morte della moglie, A.J. Fikry è diventato un uomo scontroso e irascibile, insofferente verso gli abitanti della piccola isola dove vive e stufo del suo lavoro di libraio. Una sera, però, tutto cambia: rientrando in libreria, A.J. trova una bambina che gironzola nel reparto dedicato all’infanzia, ha in mano un biglietto, scritto dalla madre: «Questa è Maya. Ha due anni. È molto intelligente ed è eccezionalmente loquace per la sua età. Voglio che diventi una lettrice e che cresca in mezzo ai libri. Io non posso più occuparmi di lei. Sono disperata».


Ho pensato parecchio al motivo per cui sia molto più facile scrivere delle cose che non ci piacciono/che odiamo/che riteniamo imperfette piuttosto che delle cose che amiamo. Questo è il mio racconto preferito, Maya, ma non riesco nemmeno a cominciare a spiegarti perché.
 
Prendo in prestito dal libro un'ulteriore citazione perché, quando mi sono ritrovata davanti al foglio per scrivere le prime impressioni, sul momento anch'io non riuscivo ad esprimere quanto e perché avessi adorato questo romanzo.
Ma procedo con ordine. In questo (forse raro) caso le copertine parlano da sole: come suggeriscono il titolo originale e il sottotitolo, questa è la storia di A.J. Fikry, vedovo e libraio, e di Maya, la bambina che gli insegnò ad amare i libri. E la vita, aggiungo io.

Il romanzo parte, a mio avviso, un po' lentamente per poi proseguire, dall'arrivo della piccola Maya, in un crescendo sempre più rapido di emozioni e sorprese incastonate così sapientemente da non farmi avvertire il classico tonfo al cuore quando solitamente ci si imbatte in uno stupefacente colpo di scena. Ogni cosa torna al suo posto con una logica spiegazione.

L'uso della terza persona permette di farci esplorare la quotidianità di ogni personaggio che si ritrovi ad intrecciare la sua vita con quella di A.J. e Maya: l'ex cognata e suo marito, il commissario, l'affascinante agente di una Casa Editrice...

La piccola Maya è il filo conduttore che lega l'inizialmente scorbutico e diffidente libraio alla comunità di Alice Island (dove l'unico svago è rappresentato proprio dalla libreria. Che la Zevin si sia ispirata a Galiano Island?).

Particolare è la descrizione dei personaggi attraverso i loro gusti letterari. Le figure risultano appena imbastite, ma la psicologia di ognuno riesce delicatamente ad emergere attraverso i dialoghi e i comportamenti.
Il nome della libreria, Island Books, e l'ambientazione della storia su un territorio quasi distaccato dal resto del mondo rispecchiano la personalità del protagonista. Prima di adottare Maya, A.J. è come un'isola a sé stante: lontano dall'amore, dal suo lavoro, dall'amicizia, dalla vita. La bambina rappresenta "la misura della (sua) felicità", irrompe nel suo mondo e lo stravolge completamente facendogli prendere coscienza di se stesso e delle persone che lo circondano.

Un uomo non è un'isola. O almeno essere un'isola non è la sua condizione ottimale.


Molto toccante è l'introduzione ad ogni capitolo, scritta da A.J. per Maya: sono annotazioni in cui l'uomo regala consigli sui libri (e di vita) alla figlia. Una sorta di testamento letterario. La tristezza è presente, ma non pesa.






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